Kiki. Consegne a domicilio è un film del grande regista giapponese Hayao Miyazaki, prodotto e realizzato dal glorioso Studio Ghibli nel 1989. Questa splendida pellicola, ritenuta a torto un’opera minore del regista nativo di Tokyo, forse perché lontana dagli affascinanti – e inquietanti – simbolismi che pervadono i suoi capolavori (come accade ne La Città Incantata), ha da poco superato i trent’anni ma non perde nulla del suo magico splendore.
La storia, molto semplice come tutte le grandi storie, è l’ennesimo romanzo di formazione (o Bildungsroman se preferite) a cui il cinema d’animazione – e aggiungiamo pure tutto lo scibile letterario – ci ha abituati: il passaggio dall’infanzia alla vita adulta attraverso quel duro tirocinio che porta il nome di adolescenza.
La storia: a 13 anni compiuti, Kiki, una piccola strega, lascia la famiglia per il suo anno di noviziato in una città di mare europea (un riuscito incrocio tra Stoccolma e Lisbona, con un pizzico di Cinque Terre), dove dovrà imparare il mestiere di strega. In prim’ordine dovrà riuscire a comandare, dopo le intuibili mille difficoltà, una scopa riottosa (dodici anni dopo questa divertente prova diventerà la scena clou di Harry Potter), in second’ordine riuscire a integrarsi nel tessuto sociale della città, conoscere e fare amicizie al di fuori del fido gatto parlante Jiji, nero come da tradizione, con cui ha un fitto dialogo per tutta la durata del film.
L’apprendistato, il passare in mezzo a infinite prove, non ultima salvare il suo amico Tombo, aggrappato alla fune fuoribordo di un dirigibile che ha rotto gli ormeggi a causa di un forte vento, comportano una crescita che, come spesso accade nella vita, si associa a delle perdite. Infatti Kiki, una volta diventata “strega” adulta, in una delle scene più belle di tutto il cinema di Miyazaki, non riuscirà più a parlare con Jiji, il gatto, che ora le risponde solo con un semplice miagolio: è una perdita dovuta alla crescita o, come spesso accade, il parlato del gatto era solo una sua fantasia, un dialogo interiore identico a quello che anche noi tante volte mettiamo in atto? Forse non lo sapremo mai, come dev’essere. Quel che importa è il gesto, il simbolo: accantonare le cose che ci legano all’infanzia, dall’amato sdrucito orsacchiotto di pelouche al guardare le cose della vita con un disincanto che ormai non ci appartiene più: la profonda magia che pervade gli eventi e le persone, l’animismo legato agli oggetti per cui un soldatino, una bambola sono reali, veri, è perduto per sempre, come appunto “far finta” (quindi per un bambino “per davvero”), che un gatto ci parli.
Anche la temporanea perdita della capacità di volare sulla scopa di saggina va letta in questa chiave: non è una perdita ma solo un’incapacità, probabilmente dovuta a una, appunto, “paura di volare” tipica dell’adolescenza.
Tutto in questa pellicola funziona: dagli elementi autobiografici del regista – la passione per le macchine volanti, ad esempio, o i tanti punti di contatto con la sua vita (anche Miyazaki dovette abbandonare la casa paterna per raggiugere Tokyo e coronare il suo sogno di diventare un disegnatore) – ai personaggi, ai luoghi che trasudano Europa, altra sua grande passione, con tv e radio in inglese e con le scritte per le strade in tutte le lingue, come a ribadire che Kiki è una storia universale, in cui tutti i bambini possono identificarsi, dal figlio della ricca borghesia ai bambini nelle zone di guerra che, davvero, di prove, sono obbligati a passarne molte per poter accedere al sogno di una vita sicura.