Aldo Manfredi

Imparare a volare: Baby Boss di Tom McGrath

Merlo che canti nel cuore della notte / Prendi queste ali spezzate e impara a volare / Per tutta la vita / Aspettavi solo questo momento per spiccare il volo.
(Blackbird, The Beatles)

Basterebbe questa stupenda canzone del quartetto di Liverpool, vero filo narrante di tutta la storia, per spiegare il senso del film: raccogliere le ali che la crescita inevitabilmente ti spezza e rimettersi a volare.

Baby Boss (The Boss Baby in originale, molto meglio), diretto da Tom McGrath, regista del geniale Megamind, ha infatti in comune con quest’ultima pellicola il tema della gelosia, del sentirsi “messo da parte”, spezzato appunto, quando in famiglia arriva un fratellino. Tim infatti, il nostro eroe, con l’arrivo di Ted, che ha le sembianze di un neonato ma in realtà è un adulto in incognito (oltre che agente segreto della Baby Corp, rivale della Puppy Co., sede di lavoro dei genitori di Tim), sperimenterà i tanti dolori che questa situazione comporta, uscendone vincitore, nella rispetto della tradizione, tutta anglosassone, del Romanzo di Formazione.

Ma la Grande Bellezza di questo film è riuscire a fare cose edite in modo inedito. Quanto cinema d’animazione e non ha affrontato il tema della gelosia in modo convenzionale? Quante lacrime abbiamo versato guardando il pur grande Incompreso di Comencini? Mentre Megamind trattava l’argomento attraverso le leggi del villaggio globale, iperconnesso, Baby Boss ha invece una dimensione più intima, tutta giocata nella psiche di Tim, alla quale abbiamo accesso attraverso la voce narrante di Tobey Maguire: ogni situazione è vista attraverso i suoi occhi, che trasfigurano gli eventi in una ottica molto winnicottiana, alla Gioco e Realtà per intenderci, tanto che alla fine ci chiediamo se tutto ciò che abbiamo visto finora non sia solo il frutto della fantasia di Tim.

Che fantasia però! Ogni corridoio diventa un luogo oscuro con le pareti piene di occhi, ogni scontro scatena esplosioni degne di Bolt (altra grande pellicola), la camera nei giorni di punizione diventa una cupa cella, lo stesso vestito giacca-cravatta e valigetta in pelle nera di Ted, “da boss” appunto, sembra il frutto della psiche infantile – e quindi altamente rappresentazionale – del protagonista.

È anche interessante notare come gli ambienti distorti, i cieli minacciosi, i sogni simili ad incubi di Tim facciano da contraltare al mondo a “bassa intensità” degli adulti, sempre troppo indaffarati dal lavoro (o stravolti dalla fatica che l’arrivo del secondogenito comporta) per notare, come accade in Toy Story dove gli adulti non hanno accesso alla vita reale dei giocattoli, tutto l’inghippo che sta montando alle loro spalle: la creazione “Made in Puppy Co.” di un pet, un cagnolino dotato di dolci occhioni che rimane cucciolo a vita e che sostituirà i neonati per sempre nel cuore di ogni genitore del pianeta.

Aldilà di questa trovata da “Macchina Fine Mondo” degna del Dott. Stranamore quel che importa qui sono i tanti concetti interessanti che si potrebbero sviluppare: pur cercando di evitare agganci con la realtà odierna ad esempio non ci sembra di trattare un po’ troppo gli esseri umani come animali e gli animali come esseri umani? Non è il sogno inconfessato di ogni genitore avere un figlio sempre “cucciolo” che, crescendo, non ci sommerga di problemi che immancabilmente fatichiamo a controllare?

Tutto giocato con leggerezza questo lavoro della DreamWorks incanta.
Valga per tutte la sequenza finale, quando Tim, fuggendo su una malferma bicicletta, perde le rotelle di sicurezza laterali e si lancia finalmente in una corsa a due ruote a tutta velocità, senza la “paura di cadere” dell’infanzia. Diretta citazione delle stampelle e dei cursori per le gambe del giovane Forrest Gump, sembra una metafora del percorso verso la vita adulta: liberarsi di inutili zavorre e finalmente “spiccare il volo”.

Aldo Manfredi

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