Davvero incantevole Dilili a Parigi (Francia, 2018), ultima opera di Michel Ocelot, autore di altri due ormai classici come Kirikù e la strega Karabà (1998) e Azur e Asmar (2006).
Incantevole perché ammirare uno sguardo nuovo, originale, non appiattito sulle solite convenzioni, uno sguardo che non rinuncia ad attuare una critica sociale, diretta, senza troppe mediazioni, oggi assume le sembianze di un gesto coraggioso, omologati come siamo alle tematiche di derivazione statunitense, ben chiuse tra quattro alte mura e risolvibili nel binomio “distruggo mondo/salvo mondo”, nonostante tutti speriamo di essere smentiti anche dalla visione de La famosa invasione degli orsi in Sicilia.
Davvero un bicchiere d’acqua cristallina questa pellicola del regista francese nativo della Guinea, portatore di un linguaggio nuovo, almeno per l’animazione, incentrato sulla frontalità delle inquadrature, che reinventa la composizione di ogni immagine come un quadro impressionista, lasciandocelo contemplare con calma attraverso un montaggio ridotto al minimo, che non si azzera nell’uso compulsivo di derivazione computer-graphics: in parole povere il contrario esatto di quello della pur pregevole ditta Pixar-Disney. La storia, davvero minima, parla di Dilili, una piccola kanak meticcia (quindi originaria della Nuova Caledonia), minuscola come Kirikù, arrivata a Parigi sul finire dell’Ottocento con l’insegnante anarchica Louise Michel. Insieme a Orel, un facchino premuroso e di bell’aspetto, che la scarrozzerà per tutta Parigi, Dilili riuscirà a incontrare i maggiori artisi della Belle Époque, sebbene sia principalmente alla ricerca dei cosiddetti Maschi Maestri, una banda di rapitori di bambine portatrice di sinistri presagi, di stringente attualità: pare infatti che Ocelot si sia ispirato alle ragazze rapite da Boko Haram in Nigeria, poi nuovamente vittime dei loro presunti liberatori; dura parlare di cinema di fronte a queste cose!
Ancora una volta, aldilà della trama, abbiamo tre elementi che caratterizzano fortemente la pellicola, oltre al già citato linguaggio della fissità, riducibile a un insieme di lunghe inquadrature frontali, in questo caso curatissime e coloratissime (e scusate i superlativi, una volta tanto necessari)…
In primis la critica sociale. Dilili infatti proviene da un’ex colonia francese, ha la pelle scura e questo attira gli sguardi e le morbosità dei parigini. Fino a qua niente di nuovo se non fosse che i Maschi Maestri hanno facce conosciute, obbligano le ragazze, anzi le bambine (particolare non casuale), già brutalmente rapite, a stare sempre in ginocchio, sotto un velo nero che le ricopre completamente. Bambine canache, bambine velate, perennemente in ginocchio: come metafora è fin troppo esplicita, non ci sembra debba essere spiegata nella sua assoluta potenza visiva, per di più messa in scena da un francese di origini africane…
Poi abbiamo i tanti personaggi che incontra Dilili nelle sue scorribande con Orel: Gustave Eiffel, Alberto Santos-Dumont, i Lumière, Renoir, Picasso, Rodin, Toulouse-Lautrec, l’immenso Marcel Proust, unitamente alle tante figure femminili, precorritrici – in un secolo estremamente patriarcale – di un femminismo a venire: Camille Claudel, Emma Calvé, Sarah Bernhardt, Marie Curie, la già menzionata Louise Michel; tutto il bel mondo parigino (l’Europa, verrebbe da dire) sfila di fronte a Dilili, con dialoghi leggeri e divertenti senza essere né verbosi né banali.
Infine Parigi. La capitale francese vibra di nuova linfa in queste immagini di Ocelot, rivivendo un’epopea che solo i maestri della Nouvelle Vague sono stati capaci di attuare. Ogni inquadratura, statica eppure fluida, rispetta pur reinventando la tradizione francese: come se Ocelot dicesse sono nato in Africa, dove ci avete colonizzato ma questo non mi impedisce di vedere la bellezza che avete regalato al mondo!
Non era uno scrittore proveniente dalla Russia zarista, altra terra attuale, contemporanea, ricca di contraddizioni millenarie, che fece dire a uno dei suoi personaggi “la bellezza salverà il mondo”?
Purtroppo sul mondo non ci sentiamo di scommettere, ma sicuramente potrebbe salvare il cinema. Questo, scusate, forse ce lo possiamo concedere.